“Qui sosta in silenzio, ma quando ti allontani parla.” Così ho trovato scritto su una pagina
di memoria dell’olocausto e, sì, così è. Qui sosta, lettore, perché dopo dovrai ricordare e
parlare a chi incontrerai, che si farà beffe della storia, che la racconterà per sentito dire,
negando che qualcosa sia mai accaduto, narrando di fatti che non corrispondono alla
verità. Così desidero iniziare questo articolo che ho maturato dopo che nella mia
coscienza qualcosa ha battuto, portandomi a riflettere sul fatto che le nostre generazioni
sono le ultime ad avere ascoltato, visto e toccato con mano gli ultimi testimoni diretti della
Seconda Guerra Mondiale e dell’orrore dello sterminio, della persecuzione e della brutale
tirannia di nazisti e fascisti. Ma perché allora, ho pensato, non farmi, non farci noi ora
testimoni di coloro che ci hanno tramandato la storia, per poter parlare di quel che è stato?
Noi, qui, nel nostro paese uno di loro lo abbiamo ascoltato quando frequentavamo le
scuole: Giovanni Battista Trentini. Qualche ricordo mi ritorna alla mente dopo aver
ascoltato le preziose parole di Graziella Finotti, amica del Battista, che ne conserva la
memoria e che mi ha fornito i documenti che ho usato per stendere questo scritto, fra cui il
libro “Questa è la mia terra, la guerra, la prigionia…”, frutto della ricerca e dell’interesse di
Carlo Gaioni Scolaro.


Battista aveva solo 18 anni quando, nel 1944, nella sua casa a Borno, dove viveva e
lavorava con il padre e la famiglia, giunsero i fascisti per prenderlo, perché proprio in
quell’anno, essendo nato nel 1926, si sarebbe dovuto arruolare nell’esercito, cosa che egli
aveva prontamente rifiutato, nascondendosi nel fienile di famiglia per svariato tempo.
Infatti non fu l’unico che, come molti italiani, stanchi, irati e desiderosi di pace, disertò la
chiamata alle armi per la neonata e fantoccia Repubblica Sociale di Salò, che Mussolini,
come un pupazzo nelle mani di Hitler, fondò ormai alla fine della guerra. Battista tentò la
fuga, ma venne catturato dai Tedeschi e portato a Verona, insieme ad altri, presso la sede
delle Brigate Nere, dove a calci e pugni tentarono di fargli confessare di essere un
partigiano, anche se lui effettivamente non lo fu e sempre negò di esserlo. Qui suo padre
lo venne a trovare e il dolore fu enorme, vedendo il figlio colmo di lividi. A niente servì la
sua visita e Battista rimase nelle mani dei fascisti. Fu l’ultima volta che si videro. Da
questa sede fu poi spostato presso le carceri del Teatro Romano in condizioni pietose.
Consegnato ai tedeschi, fu caricato, insieme ad altri 10 a bordo di un camion. Giunsero a
Bolzano e da qui, in treno, furono trasportati al campo di concentramento di Mauthausen.
Arrivato a questo campo, essendosi fermato per poco, non vide i forni crematori, divenuti
poi fin troppo noti, ma ne ricordava spesso l’odore acre che si sentiva nell’aria. Di
Mauthausen ricordava anche le donne e i bambini che piangevano, e i più piccoli che le
mamme tentavano di allattare con le mammelle vuote di latte. Per la sua giovane età e la
forza fu scelto per il lavoro, tanto che fu mandato quasi subito al Campo di
concentramento di Berlino. Finì in una fabbrica dove si producevano cassette per
munizioni e altro, e qui stava dalle sette di mattina, alle sette di sera. Arrivarono i primi
bombardamenti americani all’inizio del 1945, la fabbrica fu rasa al suolo, e di conseguenza
il lavoro fu sospeso. Finalmente arrivarono i sovietici. Questi li sfamarono, e li fecero fare
qualche lavoro utile, fra cui seppellire i morti. Spostatisi in un’altra città, attesero che i russi
organizzassero il loro ritorno a casa. Nel frattempo la maggior parte riuscì a togliersi la
divisa da prigionieri e a indossare qualche “straccio nuovo”, per così dire; infatti si
cambiarono usando i vestiti e le scarpe trovati nelle case diroccate o spesso addosso ai
cadaveri.

Da lì, spediti dai russi, dopo un altro viaggio, furono consegnati agli americani,
furono disinfettati, e poi partirono in treno alla volta dell’Italia. Dopo essere arrivato a
Caprino e aver incontrato alcuni compaesani che lo scortarono in paese giunse finalmente
a casa, accolto dalla madre, dai famigliari e da altri conoscenti. Qui fu lo zio che,
ricordando le molte disavventure e i dolori vissuti dal Battista, lo avvertì della morte delpadre per una malattia, volendo nascondergli un’ulteriore sofferenza se avesse raccontato
la verità. Tempo dopo, infatti, per caso venne a sapere che suo padre si era impiccato,
forse per il dolore, forse per il vuoto creato dal pensare di aver perduto un figlio, portatogli
via dalla guerra, dalla dittatura. Il Gaioni alla fine della sua intervista annota che Battista
disse: “… cerco di mettermi il cuore in pace, ma non sempre ci riesco…”.
Penso che possiamo, soprattutto noi che lo abbiamo sentito, visto e toccato con mano,
concordare con le parole che Graziella Finotti espresse come saluto estremo il giorno del
funerale di Battista nel Settembre del 2017:”… l’esperienza ha lasciato in te… la
consapevolezza del valore della libertà, della democrazia e della pace tra i singoli individui
e tra i popoli, contro ogni forma di dittatura, di oppressione e di violenza… non solo hai
vissuto seguendo questi ideali, ma ti sei anche impegnato per farli conoscere e
condividere da altri, soprattutto dai giovani…” A noi oggi, uomini vivi, giovani, e non alle
testimonianze dei morti, il compito di parlare di ciò che ci è stato narrato, perché in Paesi
non molto lontani ancora oggi si manifestano eventi, ideologie o sistemi politici simili a
quelli vissuti dal Battista e, così stando le cose, l’indifferenza non è ammissibile. ”Vita
mortuorum in memoria est posita vivorum”, dice Cicerone, ovvero: la vita dei morti sta
nella memoria dei vivi. Se vogliamo raccontare la storia così come è stata, noi giovani
dobbiamo parlare di ciò che abbiamo sentito dire da chi quella storia l’ha vissuta in prima
persona.