“… e da quella tempestata mai più si saltò la processione…”. Così spesso si sente affermare dai nostri nonni. E’ vero ed è riportato da un articolo dell’Arena in data 25-26 Agosto 1905, che a San Zeno di Montagna quell’anno ci fu una grandinata che distrusse coppi, raccolti e procurò vari disagi. La tradizione popolare la attribuì proprio a quell’Agosto in cui il 22 non si ricordarono i Santi Moti ma si celebrò il Vescovo allora venuto in visita in paese. Da quel giorno quindi guai azzardarsi a saltarla, altrimenti tempesta. Ma sarà ancora così in futuro? Questo anno ancora una volta si è tenuta con buona partecipazione di fedeli, ministranti e sacerdoti la solenne ricorrenza. Erano presenti due dei nostri compaesani preti, don Claudio Castellani e don Elio Aloisi, il parroco don Renato e un altro sacerdote assistente nel nostro territorio, don Domenico Gaioni, che hanno presieduto con gioia alla celebrazione. I primi due hanno ricordato gli anni in cui servivano a questa solennità da chierichetti. Quanta gente alla loro epoca, una festa di paese, una ricorrenza da non mancare. Un tempo con la partecipazione attiva della comunità, dei “confradèi”, di donne, uomini e bambini, anziani e giovani non vi erano dubbi che un simile evento riunisse la comunità intorno alla propria fede, alle proprie radici per sostenere e ravvivare la propria vita, per dare un significato alle loro giornate. Oggi invece ci siamo talmente tanto razionalizzati, talmente tanto umanizzati da dimenticare la nostra parte divina, la nostra parte che supera l’umano e ci innalza al cielo, da dimenticare di riflettere sull’anima, l’umano essere, da dimenticare Dio, che non è
lontano, non è invisibile e per non esserlo si è fatto uomo in Cristo.

Veduta della Chiesa di San Zeno di Montagna (foto NP)
Di anno in anno già un calo nella partecipazione rispetto agli scorsi c’è, e perché i nostri nonni scompaiono e perché non c’è un ricambio generazionale nella fede. Colpa di quelli, colpa di questi, colpa degli altri? È un fatto personale la fede fra dio e l’uomo singolo, un dono se vogliamo che va tenuto ma spesso che viene gettato. Non per spaventare ma queste processioni scompariranno, e non lo dico per ipotesi ma per un fatto, come già altre di cui potrei farvi menzione e nemmeno le conoscereste, di San Carlo, di San Luigi solo per nominarle. Sarebbe ipocrita continuare a proporle con sempre meno gente interessata, perché non sono una rievocazione storica, ma una preghiera a Dio e se essa non interessa e perde di significatoabbassandosi ai livelli di una manifestazione a cui fare foto o video conviene non riproporla e anzi sopprimerla. Forse questo tempo farà mutare il modo di preghiera, e non deve spaventare anzi rinvigorire. Perché se la processione, che è derivata da un modo di pregare gli Dei tipico dei pagani, al nostro tempo non va più e non dice più niente allora non la faremo più, ma non per vile
disinteresse ma perché, ripeto, forse è tempo di cambiare anche modo di pregare, di parlare a Dio. Moriranno e poi ritorneranno forse. La tradizione è sacra, ma il cammino verso il futuro vivendo il presente è necessario. Se si parla di radici è necessario praticarle e non parlarne e basta. Oggi non sembra ovvio come un tempo ricordarsi di quei Timoteo, Ippolito e Sinforiano, chiamati “Mòti”- il perché di tale soprannome è perso nel tempo, forse una abbreviazione per i tre nomi- ma ancora per ora sì, e perseveranti loderemo Dio con l’intercessione dei santi, fintanto che due o tre saranno riuniti per fede e amore nel Suo nome, come questi martiri, sembra uno italiano, uno medio-orientale e uno francese – qualcuno riderà pensando che la nostra fede e la nostra cultura non sono frutto della sola Europa, ma di un incontro avvenuto nel Mediterraneo fra diverse culture: orientali, occidentali, meridionali e settentrionali- che hanno perso la vita per ciò in cui credevano per testimoniarlo ai futuri, a noi oggi. Martire è colui che è morto per la fede, per non bestemmiare Dio, per non rinnegarlo, per dire a coloro che lo sentivano e vedevano, che la fede non è un gioco, è la vita. Don Claudio ha ricordato e sottolineato come essi non hanno rinnegato, non hanno mancato di fiducia perché come Paolo di Tarso afferma nella seconda lettera a Timoteo: “se lo rinneghiamo, anch’egli (Cristo) ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli (Cristo) però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. Egli nonostante la bestemmia
dell’uomo che si fa beffe di Lui, rimane fedele, rimane accanto all’uomo e non lo calpesta. Così hanno fatto i martiri lasciandosi morire fra le braccia dei loro calunniatori, dei loro accusatori piuttosto di sputare sulla Croce, come Cristo che non ragiona secondo la logica umana del tradimento e della vendetta, ma secondo la logica divina, del perdono, della giustizia e della fiducia, come padre al figlio, che ama, secondo le parole latine, “sine conditionibus”, ovvero senza condizioni.